Ho scoperto la malattia il 26 ottobre 2015, lo ricordo perfettamente perché queste sono date che non si dimenticano. Si trattava di un neo sospetto che aveva cominciato a destarmi qualche pensiero già dall’estate, ma non era stato preso in considerazione dai medici. Il 26 ottobre mi sono recata dalla dermatologa per toglierlo. Quando gliel’ho mostrato si è subito accorta che era un melanoma, anche senza fare un’analisi approfondita. Me l’ha detto subito e si è anche allarmata.
Le patologie oncologiche non mi erano del tutto sconosciute: a vent’anni avevo già avuto un carcinoma alla tiroide. Conoscevo anche il melanoma perché una delle mie pazienti ne era affetta, parliamo di circa vent’anni anni fa. Fortunatamente era rimasto al primo stadio, ma aveva dovuto affrontare due anni di terapie con l’interferone, quindi era stata una storia abbastanza travagliata. A quei tempi mi ero informata e avevo appreso che se il melanoma va oltre il primo o il secondo stadio è una condanna a morte sicura. Queste erano le uniche informazioni che avevo quando ho scoperto la malattia.
Esatto, sono andata in panico, mi sono proprio congelata. La Dottoressa quel giorno ha annullato gli appuntamenti che aveva preso dopo il mio e mi ha tolto il neo per farlo analizzare. Ero da sola e non avrei mai pensato che un’ora dopo sarei uscita da lì con un melanoma.
Ho raggiunto mio marito, che era andato a fare la spesa con mia figlia. Non so bene perché, ma il mio primo istinto è stato quello di andare a cercare qualcuno di fiducia. Abbiamo portato la bambina dai nonni e poi siamo andati a bere qualcosa da soli. Ci siamo seduti al bar e gli ho detto che avevo un melanoma. Ha sbarrato gli occhi, era incredulo. Gli sono venute le lacrime agli occhi e mi ha detto “era più giusto che venisse a me, tu hai già avuto un tumore”.
L’esito dell’istologico, eseguito privatamente, l’ho avuto in brevissimo tempo. Il 3 novembre sono ritornata dalla dermatologa (era il giorno del mio 38° compleanno!) e ho avuto la conferma della diagnosi: melanoma nodulare con spessore di 4 millimetri. Insomma, fra i tipi di melanoma la variante peggiore e un grande spessore. A quel punto desideravo soltanto andare a casa e stare sola con le mie bambine. Volevo proprio andare “in tana”. Continuavo a consultare internet in maniera frenetica, trovando solo informazioni che lasciavano ben poco spazio alla speranza. Continuavo a pensare di essere prossima alla morte.
La Dottoressa mi ha messo in contatto con il reparto di chirurgia dell’ospedale Morgagni Pierantoni di Forlì, che è a vocazione oncologica ed è considerato un ottimo centro di cura. Considerato lo spessore del neo, infatti, andava fatto l’allargamento ai tessuti circostanti. Lì mi ha visitato il Dott. Massimo Framarini che è un ottimo chirurgo oncologico. Prima dell’intervento mi ha fatto fare un PET, dalla quale sono risultati due linfonodi ascellari coinvolti. L’intervento al braccio è stato fatto a metà novembre. Sono stata accolta con grande empatia e gentilezza, mi hanno fatto persino ridere finché l’anestesia non mi ha fatto addormentare.
Dopo una settimana sono andata a togliere i punti e la fasciatura e ho visto com’era il braccio: sembrava letteralmente il morso di uno squalo. Infatti essendo un melanoma molto spesso hanno dovuto allargare tanto l’area.
Il mio pensiero più ricorrente erano le bambine, che all’epoca avevano 3 e 7 anni. Sapevo che con mio marito sarebbero state in ottime mani, però sarebbero cresciute senza la mamma. Ho smesso di lavorare, prendevo ansiolitici e piangevo tutte le mie lacrime mentre loro erano a scuola, poi mi ricomponevo quando tornavano a casa.
Esatto. Quando i medici hanno stabilito di procedere con lo svuotamento ascellare pensavamo di trovare al massimo un altro linfonodo coinvolto. Dalla PET infatti ne risultavano due. E invece sono stata in sala operatoria tre ore perché hanno trovato ben 18 linfonodi colpiti. Malattia al terzo stadio. A quel punto non volevo nemmeno tornare a casa: rimanere in ospedale per me era quasi un tentativo di posticipare quello che sarebbe accaduto. Dopo una settimana però sono dovuta tornare a casa. Mancavano pochi giorni al Natale.
Non so proprio con quale spirito sia riuscita ad affrontare le Feste. Il 30 dicembre mi sono recata nuovamente all’IRSTT e lì ho trovato quelli che sarebbero diventati i miei angeli, gli oncologi dell’immunoterapia: il Dott. Guidoboni, la Dott.ssa Ridolfi e la Dott. De Rosa. Quel giorno ho incontrato solo il Dott. Guidoboni, che oltre ad essere il Responsabile e ad avere davvero una grande competenza sul melanoma, è di una delicatezza e umanità meravigliose e forse anche rare.
Durante la visita ho potuto chiedergli veramente di tutto e lui mi ha risposto in maniera schietta e nello stesso tempo sensibile. In particolare, quando gli ho chiesto se avevo speranze di sopravvivenza, mi ha riferito le statistiche, che erano completamente diverse da quelle che conoscevo io! Su Google non c’erano ancora informazioni aggiornate sulle nuove sperimentazioni in corso, che cominciavano ad essere utilizzate proprio in quel periodo con successo: l’immunoterapia e la target therapy per il melanoma. Ancora oggi, molti medici non oncologi hanno scarsa conoscenza in questo campo.
Proprio così. Nonostante io avessi, probabilmente, più competenze della media delle persone nel cercare le notizie scientifiche, mi sono fatta incartare. Quando sei nel panico, ciò può accadere molto facilmente.
Il Dott. Guidoboni mi disse che c’erano buone possibilità di cronicizzazione con queste terapie. Aggiunse però che potevano essere intraprese solo con il quarto stadio, mentre per il melanoma al terzo stadio (il mio) avrei potuto iniziare la terapia con l’interferone, per ridurre la percentuale di non-progressione nel melanoma. Mi spiegò che questa percentuale era comunque esigua e mi illustrò anche i pesanti effetti collaterali dell’interferone, in modo che potessi decidere in maniera informata.
Nonostante i pochi “pro” e i molti “contro” che il medico mi aveva prospettato, dopo la Befana decisi comunque di iniziare la terapia. L’alternativa infatti era quella di non fare nulla, ma io volevo tentare il tutto per tutto.
Il periodo dell’interferone è stato il più brutto della mia malattia. L’ho fatto per circa un mese, con infusioni da 4 ore ciascuna. Mi dava una nausea fortissima. è stato un crescendo di reazioni brutte: febbre alta, brividi, inappetenza e una stanchezza incredibile, nonostante il cortisone e la tachipirina preventiva. In quel periodo ho perso 8 kg perché non riuscivo a buttare giù nulla. L’umore era crollato e, come se non bastasse, i farmaci che mi davano per la nausea mi hanno provocato un blocco intestinale. A quel punto mi sono detta “basta interferone, non ce la faccio più”.
Sì, ma dopo 15 giorni, alla TAC di controllo, sono emerse le metastasi cerebrali e polmonari. Quindi la malattia è passata al quarto stadio. Avevo sentimenti contrastanti: ero spaventata per il fatto di avere delle metastasi, soprattutto quelle al cervello, ma dall’altro lato potevo cominciare la terapia innovativa di cui mi aveva parlato il Dott. Guidoboni.
E infatti di lì a poco iniziato la target therapy con gli inibitori dabrafenib e trametinib.
Era il mese di aprile del 2016 e a quei tempi ho fatto anche il mio primo Gamma Knife, una radiochirurgia cerebrale per intervenire sulle metastasi, che avviene tramite un casco impiantato nel cranio con delle viti. In questo modo la testa viene immobilizzata durante l’emissione dei fasci di raggi gamma, evitando che questi possano andare a danneggiare le parti sane del cervello. Il vantaggio di questa tecnica era quello di non dover fare la craniotomia, ovvero l’intervento a cranio aperto, quindi accettai di buon grado.
Dopo 6 mesi sono venute fuori altre metastasi cerebrali e mi sono sottoposta al Gamma Knife per la seconda volta.
Sì, oggi continuo a fare la terapia target. La sua efficacia sulle metastasi cerebrali può essere limitata, a causa della barriera ematoencefalica, però pare che il Gamma Knife abbia l’effetto di “potenziare” le molecole della target therapy che riescono a raggiungere il cervello. A novembre del 2017 purtroppo scopro di avere nuove metastasi cerebrali e il 7 novembre 2017 faccio per la terza volta il Gamma Knife.
Da quel giorno, fino ad oggi, la malattia è ferma. Nelle risonanze magnetiche risultano ancora queste metastasi, ma alcune sono diminuite e altre sono scomparse. Da tre anni mi trovo quindi nella fase della cronicizzazione della malattia.
“Cronicizzazione” vuol dire che con la tua malattia ci convivi tutta la vita. Sicuramente ha degli effetti anche sulla comprensione sociale delle persone che ho intorno: quando la malattia è acuta o quando arriva la diagnosi, ti si stringono intorno tantissime persone. Dopo un po’ di tempo questa vicinanza può diradarsi.
Tendenzialmente la visione comune della patologia oncologica vuole la presenza di un momento acuto o di un fatto evidente (ad esempio la caduta dei capelli con la chemio) seguito dalla guarigione oppure dalla morte. Non c’è la mentalità del “ci devi convivere”.
Non voglio paragonarmi a chi sta affrontando terapie molto più pesanti delle mie, ma le persone come me subiscono un po’ uno stillicidio quotidiano: ogni giorno non stiamo tanto bene. Questo vuol dire anche fare i conti con le tue energie, con i tuoi impegni, riprogrammare dei progetti. La progettualità è molto limitata perché non sai se domani avrai un effetto collaterale che ti impedirà di fare ciò che ti sei prefissato. Questo è l’aspetto negativo della cronicizzazione.
Oggi sì, sanno che faccio la terapia e sanno che malattia ho. Un giorno la più grande mi ha persino chiesto: “mamma, ma morirai?”. Non me la sono sentita di mentirle con un no assoluto, perché temevo che se poi fosse successo, lei non si sarebbe fidata più di nessuno. Nello stesso tempo non volevo neanche dirle di sì. Risposi che i medici stavano facendo tutto il possibile affinché ciò non accadesse. Fortunatamente le bastò come risposta. Da grande vuole diventare un’oncologa: dice che vorrebbe fare per altre persone quello che i medici hanno fatto per me.
Si diventa più intensi, più sensibili, più profondi ma anche più ruvidi e faticosi, meno compiacenti. Non hai più voglia di perdere tempo con sciocchezze o con persone che non ti vanno a genio. E poi dentro di te si forma un esercito, che purtroppo diventa sempre più numeroso, di amici che non ce l’hanno fatta e che interiorizzi. Tra un anno raggiungerò il cosiddetto plateau della curva di mortalità e ci sto arrivando insieme a loro che non ci sono più.
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